“Il golf è un gioco per due persone, o coppie, che consiste nel colpire una pallina dura con mazze dalla testa di ferro e di legno fino a farla entrare in una serie di buche ricavate da una superficie erbosa levigata, poste a varie distanze le une dalle altre e separate da piste e ostacoli. Scopo del gioco è imbucare la pallina col minor numero possibile di colpi”. La definizione enciclopedica del golf secondo il Concise Oxford Dictionary evidenzia bene il forte legame tra questo sport e il prato naturale, che forse ancor più del calcio consente la valorizzazione del tappeto erboso e, con esso, dell’ambiente.
Il gioco consiste nel colpire una pallina di plastica dura (nota come palla da golf) lungo un apposito percorso, da una piazzola di partenza (il tee), fino alla buca sistemata in una zona d’arrivo (il green), mediante una successione di colpi conformi alle regole, tipicamente su più buche da conquistare lungo il percorso. Allo scopo viene utilizzato un certo numero di bastoni da golf, di forma, peso e dimensioni diverse. La vittoria va al golfista che termina le buche stabilite (generalmente 18) con il minor numero di colpi (gara a colpi o stroke play), oppure a quello che abbia vinto il maggior numero di buche (gara a buche o match play).
L’origine di questo sport è molto antica, il primo documento in cui si fa riferimento al gioco del golf, definito gowf o goff, è un decreto del 1457 del re di Scozia Giacomo II. Il golf ha fatto la sua comparsa in Italia nel 1900 e fece parte del programma olimpico nel 1900 e 1904; dopo diversi incontri fra i massimi esponenti dei tornei europei e americani con il Comitato Olimpico per un possibile ritorno del golf all’edizione 2016 dei giochi, il 9 ottobre 2009 il Comitato Olimpico Internazionale stabilì il rientro di tale gioco nel programma olimpico.
E’ un gioco molto complesso e pieno di regole e uno dei suoi aspetti più interessanti è che uno dei pochi sport a non avere un campo di gioco standardizzato: ogni campo nel mondo è diverso nelle sue caratteristiche anche se alcuni elementi si trovano ovunque. Un campo da golf può essere situato su grandi aree in pianura, in collina, in montagna o in qualsiasi luogo dove vi siano ampi spazi verdi. Il suo percorso è composto da tutta l’area di gioco (ostacoli naturali inclusi) a esclusione della zona di partenza e di quella della buca.
L’insieme di un campo di golf da 18 buche costituisce un’area di circa 60 ha che possono diventare anche molti di più se, ad esempio, si comprendono tra buca e buca zone scoscese, zone boschive da salvaguardare o zone “di rispetto” per qualche loro particolare interesse. Dal punto di vista dell’utilizzazione del territorio il campo di golf rientra (giustamente) tra le attività agricole, fatta eccezione per la club house e gli edifici ad essa annessi. Il cuore dell’impianto è ovviamente il prato naturale: un campo da golf viene realizzato prevalentemente senza uso di materiali edili, con trasformazioni del terreno dovute semplicemente a movimento terra e semina è di norma viene costituito per oltre il 50% da prato a bassa manutenzione mentre la parte restante è prevalentemente destinata a prato rasato, con limitate superfici in sabbia.
La crescita del golf in Italia, in termini di impianti, ha avuto incrementi quasi esponenziali. Dal 1954 ad oggi, il numero dei circoli affiliati, aggregati e promozionali è aumentato di oltre 20 volte superando i 400 impianti.
Sempre nello stesso lasso di tempo le tessere distribuite sono passate da 1.220 a circa 100.000, con un incremento di oltre 80 volte il numero iniziale. In Italia esistono inoltre 175 impianti di minori dimensioni (campi pratica), dove è possibile praticare il golf a prezzi estremamente contenuti, ma che non posseggono un percorso di golf vero e proprio.
Il golf risulta piuttosto diffuso nella Pianura Padana, soprattutto in Piemonte, Lombardia e Veneto, dove sono localizzati oltre il 70% delle strutture golfistiche; mostra una buona situazione nel centro Italia, dove da alcuni anni si stanno moltiplicando gli impianti in Emilia Romagna, nella Toscana e nel Lazio, ma presenta una severa carenza nel sud d’Italia e nelle Isole.
Questo tipo di distribuzione geografica nella nostra penisola è diretta conseguenza degli insediamenti britannici che agli inizi del secolo caratterizzarono fortemente alcune località turistico – residenziali. Da queste zone il golf si è poi distribuito nelle grandi città del nord, diventando “italiano” a tutti gli effetti.
Da registrare che in questi ultimi anni la realizzazione di nuovi percorsi di golf si è fatta via via più complicata: la FIG (Federazione Italiana Golf) sostiene che il motivo non è solo una (comprensibile) contrazione della domanda di gioco vista l’attuale situazione economica, ma è sempre più difficile reperire gli spazi da destinare a questo scopo, mancano gli strumenti urbanistici per snellire i tempi di realizzazione dei vari progetti ed a volte si soffre anche per incomprensioni con le pubbliche amministrazioni o con le comunità locali. Inoltre i campi da golf soffrono, ingiustamente, di alcuni falsi miti, tra cui quello che sarebbero fonte di inquinamento ambientale a causa dell’utilizzo di fertilizzanti e fitofarmaci.
La realtà è ben diversa: da anni nella maggior parte dei percorsi di golf i fitofarmaci vengono utilizzati con grande parsimonia. Vengono difatti considerati come ultima possibilità di difesa, esistendo numerose ed efficaci tecniche alternative per la prevenzione delle principali avversità del tappeto erboso (interventi agronomici, selezione di essenze resistenti, altro). Le aree potenzialmente interessate dai trattamenti inoltre sono quelle di maggior pregio (greens, tees ed in parte fairways) ed interessano quindi una percentuale molto ridotta della superficie complessiva (dal 2 al 20% massimo, che su un percorso di 18 buche di circa 60 ha significa da 1,2 a 12 ha). Parlando di fertilizzanti, l’unico rischio potrebbe essere rappresentato dall’elemento nutritivo più importante per il tappeto erboso e più facilmente disperdibile nell’ambiente, cioè l’azoto.
Nei percorsi di golf tale rischio è estremamente contenuto o addirittura escluso per il fatto che i fabbisogni sono sempre molto bassi, le aree trattate sono circoscritte (dal 2 al 20% massimo della superficie complessiva), i vettori azotati impiegati sono spesso di origine organica o a lenta cessione ed infine i dosaggi applicati sono sempre necessariamente molto frazionati. Altro falso mito è l’elevatissima esigenza idrica, ma il contributo della Ricerca in questo senso ha portato all’individuazione di varietà e specie sempre meno esigenti dal punto di vista idrico, che nel caso delle specie “macroterme”(gramigne) ad esempio si traduce in risparmi di acqua del 50% ed oltre rispetto ad un tappeto erboso tradizionale.
Anche in questo caso una recente indagine condotta dal C.N.R. (Consiglio Nazionale delle Ricerche) ha permesso di rilevare che un percorso di golf necessità di quantitativi di acqua decisamente inferiori a quelli richiesti dalle più comuni colture agricole (circa il 50% in meno).
In realtà i percorsi di golf sono un’indiscutibile risorsa economica sia per la comunità locale e per le strutture confinanti, sia diretta che indotta (turismo). Inoltre un esempio di grande impegno del Golf italiano nei confronti dell’ambiente è rappresentato dal progetto “BioGolf”, un protocollo che, sotto il profilo della manutenzione del tappeto erboso, non prevede l’uso di prodotti chimici di sintesi, adotta fertilizzanti organici naturali e fitofarmaci biologici, punta ad operazioni colturali di natura meccanica, incentiva la sostenibilità ambientale e la protezione e la conservazione del paesaggio e della biodiversità.
Fonti consultate:
Tag:golf, prati naturali, ricerca e sviluppo, salute, sostenibilità ambientale, Sport
I rischi sulla salute umana legati ai prati artificiali continuano ad essere una questione controversa in più parti del mondo, anche nei paesi che vantano una fortissima tradizione di attività sportive all’aria aperta.
Se in Europa, Italia compresa, si discute da oltre un decennio sul possibile legame tra erba artificiale e insorgenza di tumori (vedi www.pratinaturali.it/salute-pubblica-lolanda-si-interroga-sui-rischi-dellerba-sintetica e www.pratinaturali.it/sport-prati-naturali-meglio) negli Stati Uniti il dibattito è altrettanto acceso; sono infatti diverse le testimonianze a favore della tesi causa (prati sintetici) – effetto (probabilità di malattia) sebbene altrettanto numerose siano quelle che mirano a sfatare tale tesi.
Ma andiamo con ordine.
Uno studio (non pubblicato) del 2016 della Rutgers University, Ateneo del New Jersey, ha infatti esaminato la composizione chimica dell’intaso di gomma utilizzato di alcuni prati artificiali a New York trovando sei potenziali composti cancerogeni (idrocarburi policlicici aromatici) ad una concentrazione superiore a quella prevista dalla legge dello Stato. In questo caso i risultati dello studio, secondo gli stessi ricercatori, potrebbero essere stati influenzati dai solventi utilizzati per l’estrazione dei composti dalla gomma, ma già nel 2014 Amy Griffin (solo per citare un caso), allenatrice di calcio dell’Università di Washington, ha effettuato una ricerca su 53 atleti statunitensi professionisti e non con i quali era entrata in contatto e ai quali era stata diagnosticata una patologia tumorale.
Più del 60% di questi giocatori di calcio erano portieri e le tipologie di tumori predominanti, leucemia e linfomi, sembrerebbero, secondo la sua tesi, legate appunto al ruolo di questi atleti, che prevede uno stretto contatto con i granuli in gomma dell’intaso del campo da gioco con elevata possibilità di ingestione accidentale e/o sfregamento con conseguenti ferite superficiali.
A fronte di queste ricerche e altre testimonianze, l’industria dei prati artificiali ha risposto con studi ufficiali che attestano come i livelli di composti cancerogeni nei granuli di gomma utilizzati negli intasi degli impianti, sebbene presenti, siano a livelli troppo bassi per essere pericolosi per la salute umana.
Di contro il National Institute of Environmental Health Sciences (NIEHS – www.niehs.nih.gov) sostiene da anni che il rischio di cancro è legato non tanto ai livelli di concentrazione di un singolo composto, quanto all’effetto combinato della concentrazione di più composti cancerogeni. Questa importante evidenza è anche alla base della creazione di una task force internazionale composta da più di 300 scienziati, conosciuta come Progetto Halifax (Halifax Project).
Secondo i ricercatori di questa task force la ricerca sulla singola sostanza chimica e sulla sua pericolosità è un approccio incompleto, infatti pochissime delle sostanze chimiche conosciute sono “cancerogeni completi” ossia sono in grado, da sole, di promuovere lo sviluppo tumorale; ne sono un esempio proprio gli idrocarburi policiclici aromatici, prodotti di combustione ubiquitari presenti nel fumo di sigaretta, nelle carni cotte alla brace, oppure anche in alcuni ambienti di lavoro come ad esempio nelle aziende che producono il carbone coke.
Anche se si è appreso molto circa i rischi connessi ad alcune singole sostanze note per essere cancerogene – evidenziano i ricercatori – sappiamo in realtà molto poco dei rischi di cancro che potrebbero essere attribuiti agli effetti combinati delle tante sostanze chimiche alle quali siamo esposti nella nostra vita quotidiana e per questo è necessario approfondirne la ricerca.
A questo va aggiunto che negli Stati Uniti l’EPA (Environmental Protection Agency – Agenzia per la protezione dell’ambiente) ha aperto un progetto, tutt’ora in corso, mirato ad accertare i rischi per la salute legati all’attività sui prati artificiali che si intitola: “Federal Research Action Plan on Recycled Tire Crumb Used on Playing Fields and Playgrounds” (Piano d’azione federale sui granuli riciclati da pneumatici utilizzati nei campi da gioco e ricreativi – consultabile a questo link: www.epa.gov/chemical-research/federal-research-recycled-tire-crumb-used-playing-fields ).
Insomma, negli Stati Uniti come in Europa il dibattito sull’impatto sulla salute dei prati artificiali è molto sentito e solo la ricerca scientifica potrà dare indicazioni chiare.
Di sicuro va ricordato come i prati naturali (vedi www.pratinaturali.it/aria-aperta-sport-prati-naturali-connubio-perfetto-benessere ) non espongano gli utilizzatori, sia atleti sportivi, sia comuni cittadini, ad alcun rischio per la salute, anzi, giovano allo stato psico-fisico delle persone ed all’ambiente in generale.
Fonti consultate:
Tag:benessere, prati naturali, ricerca e sviluppo, salute, sostenibilità ambientale, Sport, Tappeti erbosi
L’esempio più conosciuto, almeno nel nostro Paese, è sicuramente il “bosco verticale”, un complesso di due palazzi residenziali a torre progettato da Stefano Boeri, Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra e situato nel Centro Direzionale di Milano, ai margini del quartiere Isola.
Il bosco verticale è un esempio di applicazione del “verde tecnologico”, una una vera e propria disciplina che unisce l’agronomia all’architettura con l’obiettivo di fondere in un’unica anima il mondo vegetale, con particolare riferimento proprio ai prati naturali, con l’ambiente urbano, portando i parchi e i giardini a contatto diretto con i luoghi dove abitiamo. Peculiarità del bosco verticale di Milano, inaugurato nel 2014, è la presenza di più di duemila essenze arboree, tra erbacee, arbusti e alberi ad alto fusto, distribuite sui prospetti. Questa tendenza, da qualche anno oggetto di continui corsi di approfondimento e formazione sia per gli architetti, sia per gli agronomi, trova la sua espressione in due tipologie principali: il verde pensile e il verde verticale.
Con verde pensile si intende una tecnologia finalizzata a realizzare strati vegetativi su superfici che non sono in contatto con il suolo naturale. Le superfici possono avere spessori anche molto ridotti e possono essere impermeabilizzate, come i tetti piani o inclinati, o non impermeabilizzate.
Il verde pensile non è semplicemente uno strato di finitura, di abbellimento e/o mascheramento di superfici costruite.
Realizzare il verde pensile presuppone la gestione di un sistema integrato e complesso di strati funzionali che hanno lo scopo primario di ricreare un habitat adatto alla crescita e al corretto sviluppo delle specie arboree ed erbacee.
È una soluzione ad alto contenuto tecnologico: viene riprodotto il processo naturale con tecniche che ne imitano le funzioni così da permettere il corretto sviluppo di una superficie vegetalizzata.
Al terreno viene sostituita una stratigrafia, articolata in una serie di strati funzionali caratterizzanti, capace di smaltire le acque in eccesso trattenendo contemporaneamente l’acqua e le soluzioni nutritive necessarie alla vita delle piante.
Non stiamo di certo parlando di una moda recente, i giardini pensili sono una soluzione architettonica che affonda le proprie radici (in tutti i sensi) nel passato, basti pensare al Palazzo Borromeo, edificio seicentesco sito nell’Isola Bella, sul Lago Maggiore (comune di Stresa, provincia del Verbano-Cusio-Ossola).
Oggi, grazie alle tecnologie disponibili, le possibilità di trasformare tetti o terrazzamenti degli edifici urbani sono molteplici e adattabili a grandi superfici come a scala condominiale. Il progetto del nuovo Policlinico di Milano, una costruzione avveniristica che dovrebbe essere conclusa nel 2022, prevede la realizzazione di due blocchi di 7 piani uniti da uno centrale di tre piani sul quale sarà realizzato un giardino terapeutico pensile che secondo l’ideatore, lo stesso architetto Boeri del bosco verticale, sarà il più grande del mondo.
Con verde, o giardino, verticale si intende una parete coltivata con piante specifiche. Queste sono fatte radicare in compartimenti tra due strati di materiale fibroso ancorato alla parete.
Per garantire l’approvvigionamento idrico è previsto un impianto apposito posto tra gli strati.
Vere e proprie opere d’arte, i giardini verticali vengono spesso realizzati in metropoli, in particolare sulle superfici verticali degli edifici. Possono essere anche di grandi dimensioni, come ad esempio quella del CaixaForum di Madrid, progettata dal botanico Patrick Blanc, alta 24 metri e con un’ampiezza di 460 m², oppure il “Padiglione Israele” ad Expo 2015.
Una parete verde non è solo una soluzione esteticamente attraente, porta con sé alcuni vantaggi, andando a costituire una “seconda pelle” degli edifici che ne migliora, da un lato, l’isolamento termico, evitando l’irraggiamento diretto dei raggi solari sulla parete, e, dall’altro la valenza ambientale, contribuendo a catturare le polveri sottili (PM10) in ambiente urbano.
Sintetizzando, le facciate rivestite con prati verticali offrono alcuni vantaggi:
Fonti consultate:
Verde Verticale – Aspetti figurativi, ragioni funzionali e soluzioni tecniche nella realizzazione di living walls e green façades. Santarcangelo di Romagna: Maggioli
Coperture a verde: ricerca, progetto ed esecuzione per l’edificio sostenibile, Hoepli
Il Nuovo Verde Verticale – Tecnologie, Progetti, Linee guida. Torino: Wolters Kluwer Italia
Giardini in verticale. Firenze: Verbavolant
Verde: naturalizzare in verticale. Santarcangelo di Romagna: Maggioli
Il verde verticale, Sistemi Editoriali Esselibri Simone
Tag:giardinaggio, innovazione, Italia, milano, ricerca e sviluppo, sostenibilità ambientale, Tappeti erbosi, verde ornamentale, verde tecnologico, verde urbano
Che l’attività fisica, da una semplice passeggiata a uno sport intenso, faccia bene è risaputo, ma farlo all’aria aperta è ancora meglio.
Diversi studi scientifici evidenziano che nella popolazione fisicamente attiva (che pratica attività fisica moderata tutti i giorni o quasi) si ha una riduzione del 30-50% del rischio relativo di malattie coronariche rispetto alla popolazione sedentaria, a parità di altri fattori di rischio.
Uno studio effettuato nel 2009 su 350.000 pazienti da 195 medici di famiglia olandesi ha evidenziato che per 15 delle 24 patologie esaminate la frequenza delle malattie croniche (cardiopatie coronariche come angina e infarto, disturbi scheletrici, ansia, depressione, infezioni respiratorie, cefalea, vertigini, infezioni delle vie urinarie, diabete) era inferiore in chi viveva a meno di 1 km di distanza da parchi o aree verdi. Non solo, in uno studio analogo giapponese del 2002, gli autori hanno studiato l’associazione a Tokio tra la presenza di aree verdi vicino alla casa di residenza e la sopravvivenza di 3.144 anziani. Ne è risultato che la probabilità di sopravvivenza a 5 anni era direttamente proporzionale allo spazio disponibile per camminare, al numero di parchi e di strade alberate vicino al domicilio, alle ore di esposizione al sole della casa e all’affermazione di voler continuare a vivere nello stesso quartiere.
Quindi, se muoversi fa bene, muoversi nel verde fa ancora meglio.
Lo sport praticato in ambienti aperti permette di respirare aria pura, migliorando l’efficienza dell’atto respiratorio. Le radiazioni solari, inoltre, esercitano un’azione curativa e preventiva nei riguardi di alcune malattie ossee o polmonari perché favoriscono la produzione di vitamina D.
Inoltre fare attività fisica su un prato naturale è più sicuro per articolazioni e muscolatura: sui manti erbosi naturali si ha un miglior appoggio delle calzature, l’erba esercita un maggiore attrito in caso di umidità e quindi minori possibilità di scivolare e cadere, senza contare la maggiore elasticità e sofficità rispetto a qualunque altra superficie. Non per niente molti atleti professionisti preferiscono giocare sulle superfici naturali invece che su quelle sintetiche.
Uno studio del Cnr (Centro nazionale ricerche) ha evidenziato, infine, come obesità infantile, attività fisica e livello di urbanizzazione siano collegati tra loro: per i bambini è importante sia la regolarità dell’esercizio sia il tempo impiegato. Fino ai 10 anni – recita lo studio – la dimensione del divertimento va privilegiata rispetto a quella della competizione ed è quindi importante aumentare nelle città gli spazi di verde pubblico attrezzato.
Fonti consultate
“Spazi per camminare, camminare fa bene alla salute”. A cura di Armando Barp e Domenico Bolla, edizioni Marsilio (2009).
“Spazi verdi da vivere”. Pubblicazione a cura dell’Azienda ULSS 20 ed Università Iuav di Venezia.
“Physical activity, adiposity and urbanization level in children: results for the Italian cohort of the IDEFICS study” – Pubblic Healt Journal, Volume 127, Issue 8, Pages 761–765 (2013).
WHO, Physical Activity – www.who.int/dietphysicalactivity/publications/facts/pa/en
“Physical activity decreases cardiovascular disease risk in women: review and meta-analysis». Am. J. Prev. Med., Y. Oguma, T. Shinoda-Tagawa.
www.sementi.it
Tag:benessere, prati naturali, sostenibilità ambientale, Sport
Di solito la parola inquinamento evoca nella nostra mente ciminiere, gas di scarico e condotte fognarie che scaricano dentro i fiumi. Eppure esistono fonti di inquinamento meno note ma altrettanto dannose per la nostra salute: i rumori.
Chi vive in una grande città ha esperienza quotidiana dell’inquinamento acustico, una minaccia costante alla qualità della nostra vita, causa di stress psichico e fisico. Molte ricerche specialistiche hanno infatti dimostrato come l’incidenza di disturbi del sonno, infarti, ictus, ipertensione e malattie cardiovascolari, sia più diffusa tra la popolazione che vive nella congestione di città particolarmente rumorose, rispetto a quella meno sottoposta ai rumori.
L’inquinamento acustico può essere causa di ansia ed irritabilità nei bambini e di depressione negli adulti, ma l’Organizzazione mondiale della Sanità sostiene che in Europa l’inquinamento acustico rappresenti il secondo problema di rischio ambientale. Inoltre uno studio condotto nel 2001 negli Stati Uniti sostiene che, quando persistente, può causare gravi affezioni negli anziani, o aggravarle quando preesistenti.
Il verde urbano, ancora una volta, è una risorsa fondamentale per contrastare questo rischio: la vegetazione arborea ed arbustiva può contribuire ad attenuare i rumori mediante l’assorbimento, la riflessione e la rifrazione delle onde sonore. Non per niente la legge n. 10/2013 (Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani) all’art. 1 comma 1 riconosce agli spazi verdi urbani un ruolo essenziale nel miglioramento della «vivibilità degli insediamenti urbani».
Le foglie delle essenze che costituiscono un prato naturale, oltre che assorbire le emissioni tossiche prodotte dalla combustione dei gas di scarico e trattenere polveri e inquinanti dell’aria, sono in grado di attenuare il fastidio procurato dal rumore del 20-30%.
Le onde sonore sono infatti fortemente influenzate dalla tipologia di superficie che incontrano durante la loro diffusione: i prati, costituiti da tanti “fili di erba” offrono una superficie molto irregolare e flessibile, in grado di smorzare le onde sonore, assorbendo ed attenuando quindi i rumori del traffico, dei lavori in corso, delle industrie, ecc. In questo senso basti pensare che i prati presenti sugli argini delle autostrade riducono il rumore del traffico due volte di più rispetto alle pavimentazioni artificiali. Inoltre altri studi hanno dimostrato che se un prato naturale viene disposto su una barriera inclinata verso una fonte di rumore, questo viene ridotto da 8 a 10 decibel.
Considerando che, per evitare guai seri alla nostra salute, l’Oms raccomanda il rispetto delle soglie di esposizione fissate a 65 decibel durante il giorno e a 55 nel corso della notte, il prato naturale conferma il suo importante ruolo di “salva vita”.
Fonti consultate
«Burden of disease from environmental noise. Quantification of healthy life years lost in Europe» – Oms Europa, Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea (2011).
Manuale per tecnici del verde urbano, Regione Piemonte.
www.tuttogreen.it
www.sementi.it
www.thelawninstitute.org
Tag:inquinamento acustico, prati naturali, rumore, salute, sostenibilità ambientale
Il periodo più caldo dell’anno è ormai alle porte e anche il prato, come qualunque altra coltura, necessita di acqua per mantenersi rigoglioso e sano.
Ecco qualche consiglio, valido sia per il piccolo giardino dietro casa sia per superfici più ampie ma comunque non per uso professionale.
Irrigare presto alla mattina è una buona pratica per razionalizzare l’utilizzo dell’acqua da parte delle piante, e quindi far sì che l’irrigazione sia efficiente, partendo dal presupposto che il momento in cui effettuare l’irrigazione è quello in cui la pianta inizia ad appassire: ottimale è intervenire immediatamente prima di questo momento e assolutamente prima che l’appassimento diventi permanente. Irrigare nelle ore serali, sebbene sia una pratica normalmente diffusa, aumenta il rischio di malattie fungine delle piante (molto spesso causate da Phytium) perché mantiene la vegetazione umida per diverse ore.
Le ore centrali della giornata sono da evitare nel caso in cui esista il rischio di superare la capacità di infiltrazione dell’acqua nel terreno creando acqua stagnante: questa scaldandosi può aumentare la temperatura della corona della pianta provocando serie lesioni.
Discorso a parte merita la pratica del syringing, tramite la quale si somministrano modeste quantità di acqua allo scopo di aggiungere al raffreddamento determinato dall’acqua traspirata, quello dell’acqua evaporata. Con questo metodo la somministrazione viene effettuata proprio in corrispondenza delle ore più calde della giornata quando è massima la perdita di acqua per evapotraspirazione e più altro è il rischio di deficit idrico. In ambito professionale si usa irrigare i tappeti erbosi sportivi (golf e campi da calcio in primis) nelle ore più calde proprio per abbassare la temperatura dell’erba e fare soffrire meno il tappeto erboso, ma è una pratica da effettuare solamente in caso di necessità ed è meglio averne esperienza.
Sarebbe inoltre buona norma applicare l’acqua a cicli brevi o a quantità ridotte in cicli più lunghi: ciò permette l’ottimizzazione del tasso di infiltrazione idrica senza provocare pozzanghere o ruscellamenti con seri rischi, con il caldo, di sviluppo di organismi fungini come il già citato Pythium. Ulteriore buona norma è interrompere l’irrigazione al formarsi di pozzanghere permettendo l’assorbimento dell’acqua nel terreno prima di ricominciare ad irrigare.
Uno degli aspetti più complessi legati all’irrigazione è ovviamente la quantità di acqua da distribuire, in linea di massima è importante dare acqua ma nello stesso tempo non asfissiare il terreno.
Un valore assolutamente generale, che varia comunque in base ad altitudine, evapotraspirazione ed altri fattori, può essere quello di 6 litri di acqua per m² di prato al giorno. Quindi, ipotizzando di irrigare ogni 2 giorni, all’incirca 24 litri per m² alla settimana.
Nel caso in cui sia necessario intervenire con volumi idrici molto consistenti in una unica soluzione è buona pratica effettuare in precedenza la “forconatura” del prato. Questa operazione altro non è che la foratura, con un attrezzo adatto, del manto erboso per una profondità che può arrivare a 20-30 cm. Gli impianti professionali, come i campi da calcio o da golf, dispongono di macchine che eseguono questa operazione, mentre nel prato “domestico” si può utilizzare, appunto, un semplice “forcone”.
Lo scopo di questa operazione è quello ovviare temporaneamente a fenomeni quali ristagni di acqua, che possono verificarsi anche dopo i temporali tipici di questo periodo dell’anno, che aumentano il rischio sopraccitato di malattie fungine.
Fonti consultate:
Tappeti Erbosi (Edagricole, 2006)
www.sementi.it
www.vitaincampagna.it
www.calciatori.com
Tag:acqua, giardinaggio, irrigazione, prati naturali, sostenibilità ambientale
Luigi, quali sono i valori principali alla base della vostra attività?
La nostra azienda opera nel settore graminacee per tappeti erbosi da 3 generazioni, è stata fondata da mio padre Ugo ed oggi ci lavorano anche i miei figli Alessandro e Francesco.
Ciò che ci contraddistingue è la ricerca continua di nuovi prodotti , che possano sempre più soddisfare le esigenze della clientela incontrando quindi le richieste di innovazione del mercato.
Quali sono i segreti per un prato naturale perfetto?
Per ottenere un prato naturale perfetto occorre partire da un buon terreno: deve essere preparato con cura, dando attenzione al diserbo delle infestanti e al drenaggio.
Inoltre è essenziale scegliere il seme più adatto all’areale in base anche alle esigenze e alla destinazione d’uso del prato.
Oggi giorno la ricerca fa dei passi in avanti e ci permette di disporre di sementi adatte ad ogni momento di semina. Pensiamo solo ai miscugli per la rigenerazione dei prati dei campi da calcio: oggi, dopo sole tre settimane dalla risemina siamo in grado di garantire il riutilizzo del campo e con una spesa veramente contenuta. In caso di terreni siccitosi e temperature elevate, possiamo contare su varietà di Festuca arundinacee Americane che garantiscono eccellenti risultati nel tempo con minime manutenzioni.
Può segnalarci le esperienze e gli impianti più importanti di cui si è occupata la vostra azienda?
Ultimamente abbiamo collaborato per il rinverdimento di diversi campi da calcio, nella zona di Como in particolare abbiamo fornito un nostro miscuglio e in meno di tre settimane i campi erano pronti a ricevere la primaverile del Barcellona.
È stato un successo sia per noi sia per le squadre che hanno potuto usufruire di un tappeto compatto e naturale. Purtroppo un’errata informazione ha portato in questi anni a utilizzare i prati artificiali, che, al contrario di quelli naturali, non producono ossigeno grazie alla fotosintesi, non abbassano la temperatura e sono sotto accusa per la loro sospetta nocività per la saluta umana. Sia in Olanda sia negli USA, infatti, sono state fatte proposte per proibire il gioco sui campi artificiali per diverse ragioni, sia di salubrità del giocatore, sia di sicurezza legata a traumi e contusioni.
Le migliori varietà attuali possono garantire lo stesso utilizzo di un campo artificiale con un costo decisamente inferiore, sia di manutenzione sia di costi di ammortamento.
Quanto sono importanti Ricerca e innovazione nel comparto del verde, sia urbano sia sportivo?
Ricerca e innovazione sono indispensabili per garantire il miglior prodotto possibile per tutte le esigenze, sia in termini di aspetto visivo, sia di resistenza agli stress e alle malattie, senza dimenticare il risparmio idrico, tema di forte attualità.
Tag:Ferri Luigi Sementi, innovazione, prati naturali, ricerca e sviluppo, sostenibilità ambientale, Sport, Tappeti erbosi
«Progettare il verde urbano del futuro vuol dire oltrepassare gli schemi tradizionali progettuali con i quali si interpretavano e realizzavano le aree verdi, in particolare quelle a destinazione pubblica: significa far convivere un progetto spaziale con quello naturalistico e sociale, creare nuovi ed integrati rapporti tra i sistemi insediativi e tutte le componenti degli spazi aperti, siano esse di natura percettiva sia partecipativa». Questa la filosofia della presidente di Assofloro Lombardia Nada Forbici, con la quale abbiamo cercato di delineare lo scenario di domani per il prato naturale, tra cui la defiscalizzazione del verde privato.
Presidente Forbici, quali sono le tendenze future più interessanti relativamente al verde urbano?
In futuro sarà sempre più fondamentale concepire il paesaggio come espressione del luogo stesso in cui si trova inserito e dell’aspetto sociale-culturale della comunità che lo ospita. Il futuro verde urbano dovrà sapersi adattare ad un mondo in cambiamento, non solo nel clima ma anche della società e nelle richieste del cittadino. La parola chiava sarà Progetti Integrati: una sinergia ed un ridisegno del tessuto urbano che compenetri infrastrutture verdi e green building, creando nuovi ecosistemi che contribuiscano a migliorare il microclima e la biodiversità e ridurre l’inquinamento, le isole di calore, i dissesti idrogeologici”.
Il prato naturale è un elemento propulsivo per il verde urbano, come sarà secondo lei il prato del futuro?
Il concetto di prato ornamentale, arrivato in Italia secondo il paradigma del “prato all’inglese” (un prato perfetto, elegante, raffinato e, di conseguenza, molto esigente da un punto di vista manutentivo e di costi), è destinato a subire una svolta che è in parte già avviata. Già da qualche anno, infatti, a partire dalla crisi economica che ha ridotto le risorse pubbliche e private, in concomitanza con l’attenzione crescente all’impatto ambientale delle azioni antropiche, il modello del prato all’inglese ha iniziato a vacillare.
Così iniziano a farsi spazio tappeti erbosi più ecologici e più economici, che prevedono l’utilizzo di specie autoctone, di varietà più resistenti allo stress idrico, di prati estensivi a basso costo manutentivo (ridotto nr. di sfalci, ridotto uso della chimica per fertilizzazione), di prati più resistenti alle malattie (che possano essere gestiti senza l’utilizzo di prodotti fitosanitari.
Sono nate così nuove tipologie di tappeto erboso prima non conosciute dal mercato, ed altre sono ancora in fase di sperimentazione, oggi in Italia.
Ritiene che a queste innovazioni debba seguire un nuovo approccio da parte degli gli operatori del settore?
L’approccio nuovo si può riassumere in queste parole chiave: gestione organica del tappeto erboso, e approccio naturale/biologico. Il cambiamento culturale, che deve avvenire nel pubblico ma anche negli operatori professionisti (giardinieri) è molto lento e difficile, anche perché va nella direzione opposta rispetto ai paradigmi della nostra società post-contemporanea (quelli del tutto-subito e del perfetto-per sempre-a costo accessibile). Per questo si sta verificando il fenomeno di mercato del prato sintetico, con un boom vero e proprio negli ultimi due anni, perché risponde perfettamente a questo immaginario. Ovviamente a livello qualitativo il prato naturale non ha confronti, l’unico punto in comune con il sintetico è che sono entrambi verdi ma tutti i benefici del prato naturale spariscono con l’utilizzo del sintetico.
Assofloro Lombardia ha presentato recentemente delle proposte di legge in materia di defiscalizzazione del verde privato: quali vantaggi apporterebbero a livello sociale e occupazionale?
I vantaggi ed i benefici sono diversi e coinvolgono svariati livelli. Grazie all’incentivazione di interventi di riqualificazione, recupero e realizzazione di aree verdi private, attraverso un sistema di agevolazioni fiscali, si otterrebbero una serie di risultati importanti fra cui:
• aumento dell’occupazione,
• aumento del gettito fiscale,
• emersione del lavoro nero,
• aumento del valore immobiliare,
• riqualificazione ecologico ambientale delle aree edificate,
• diminuzione dell’isola di calore,
• miglioramento della qualità dell’aria e della vita.
La questione è di importanza trasversale perché il verde privato, come quello pubblico, hanno una ricaduta che va oltre l’estetica e riguarda l’ambiente, la salute, il benessere, la qualificazione del lavoro, ecc.
È stato stimato che l’incremento di fatturato per l’anno 2017 relativamente ai lavori straordinari di riqualificazione e manutenzione del verde, in aree verdi esistenti e aree verdi urbanizzate esistenti, ammonterebbe a circa 1,2 miliardi di euro. Tale stima è stata elaborata incrociando e rapportando i dati del settore verde con quelli del settore primario ad esso connesso, vale a dire il settore delle costruzioni e ristrutturazioni in ambito di edilizia. Per i motivi precedentemente riportati investire oggi in una politica “green oriented” potrà solo portare ricadute positive a livello nazionale
Oggi viene incentivato tutto ciò che viene ristrutturato all’esterno delle abitazioni, eccetto il verde. I tempi sono maturi per un ampliamento di prospettiva?
È necessario un ampliamento di prospettiva, da intendersi come strumento ed opportunità per il rilancio economico dell’intero settore legato al verde. I dati sono significativi: Il florovivaismo in Italia vale oltre 2,5 miliardi di euro, di cui circa 1,15 per la sola produzione di fiori e piante da vaso. Sono ben 30.000 le aziende impegnate nel settore, per un totale di 180.000 occupati nel settore compresi quelli dell’ambito manutentivo e quasi 29.000 ettari di superficie agricola complessivamente occupata. Consideriamo poi tutto l’indotto connesso al mondo del verde produttivo e di costruzione-manutenzione. È un’opportunità, rimarchiamo, per sostenere e rilanciare l’intero comparto legato al verde che, non smetteremo di ricordare, apporta benefici imprescindibili per l’ambiente e la salute di tutti noi cittadini.
Tag:CO2, giardinaggio, innovazione, Italia, prati naturali, ricerca e sviluppo, sostenibilità ambientale, verde ornamentale
In città fa più caldo che in campagna. Quello che può sembrare un luogo comune è in realtà un’allerta reale, una problematica che da diversi anni viene evidenziata da meteorologi e climatologi.
Il fenomeno che ci fa boccheggiare in città si chiama Isola di calore ed è un evento climatico documentato da centinaia di studi scientifici che determina un microclima più caldo all’interno delle aree urbane cittadine rispetto alle circostanti zone periferiche e rurali.
La cause sono diverse: la diffusa cementificazione, le superfici asfaltate che prevalgono nettamente rispetto alle aree verdi, le emissioni degli autoveicoli, degli impianti industriali e dei sistemi di riscaldamento e di aria condizionata ad uso domestico.
Nelle ultime stagioni estive le temperature nelle grandi città italiane sono aumentate tra gli 1,8 e i 3,7 °C rispetto alle medie del trentennio di riferimento climatico 1961-1990 (convenzionalmente fissate dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale) mentre nelle aree rurali circostanti i valori si sono mantenuti pressoché stabili con le medie trentennali, tanto che nei progetti di nuova urbanizzazione e negli interventi di riqualificazione di aree già urbanizzate la minimizzazione dell’isola di calore porta a scelte tecnicamente consapevoli circa le caratteristiche dei materiali di costruzione e, aspetto ancora più importante, la copertura verde del suolo (alberi e superfici a verde) e degli edifici (tetti e pareti verdi).
È risaputo, oltre che scientificamente provato, che le superfici naturali riducono maggiormente il calore rispetto alle pavimentazioni urbane, il terreno nudo o ai materiali sintetici per merito del processo di evapotraspirazione.
Uno dei “materiali” biologici più efficaci per il controllo del microclima degli spazi esterni è appunto la vegetazione che, se utilizzata in modo appropriato, può determinare un effetto di miglioramento consistente.
Ricordiamo che in una bella giornata estiva un tappeto erboso di un ettaro è in grado di rilasciare 20.000 litri di acqua nell’atmosfera, inoltre, sempre attraverso l’evapotraspirazione, il verde urbano fornisce sia protezione solare sia raffreddamento dell’aria ambiente: uno studio sull’impatto degli spazi verdi urbani ha dimostrato che l’evapotraspirazione degli alberi o delle aree verdi aumenta l’umidità relativa dell’aria e contribuisce indirettamente alla riduzione della temperatura in città.
L’effetto di raffrescamento estivo dei grandi parchi urbani e delle cinture verdi è noto: diverse sperimentazioni internazionali testimoniano una differenza di temperatura dell’aria da 2 a 4°C fra gli spazi interclusi in grandi aree verdi e quelli dell’ambiente costruito immediatamente circostante. Tale differenza di temperatura, oltre a determinare diverse condizioni di comfort tra aree verdi ed aree costruite, induce brezze termiche urbane che, in assenza di vento, possono dare un contributo al raffrescamento del sito e degli edifici.
Fonti consultate
Tag:clima, Italia, prati naturali, ricerca e sviluppo, riscaldamento globale, sostenibilità ambientale
Calciatore professionista o dilettante, rugbista della Nazionale o semplice amante del golf, qualunque sia il tuo sport farlo su un prato naturale è meglio.
A dirlo sono diversi studi, tra cui uno della NFLPA (National Football League Players Association) secondo la quale i giocatori professionisti di football americano preferiscono i prati naturali per svariati motivi, tra cui il minor rischio di infortuni rispetto a quelli sintetici, il minor affaticamento fisico soprattutto in caso di temperatura elevata e, non ultimo, l’odore decisamente più gradevole.
A corroborare questa tesi è anche un Report dello scorso anno del Dipartimento di Microbiologia agro-alimentare dell’Università di Catania, secondo il quale in molti campi in erba sintetica (campi di calcio, calcetto, tennis) sono state rilevate elevate presenza di Escherichia coli, stafilococchi e carica batterica aerobia totale.
I motivi, spiega il Rapporto, sono ancora oggetto di studio, ma i risultati del tutto preliminari pongono le basi per ulteriori indagini microbiologiche per comprendere l’origine della contaminazione e dello sviluppo microbico (acqua impiegata per il lavaggio dei campi, calpestio dei giocatori, gocce di sudore, saliva e sangue, condizioni climatiche).
Secondo la prof.ssa di Microbiologia agraria dell’Università di Catania Cinzia Randazzo, l’indagine ha evidenziato una carica microbica totale – su svariati punti del manto appartenenti a diversi impianti – di 10.000 unità formanti colonie (ufc) per cm², stafilococchi pari a 1.000 ufc/cm² ed Escherichia coli pari a 100 ufc/cm².
I campi naturali, al contrario, sono costituiti da miscugli di tante varietà di “erba” e grazie all’attività dei microrganismi naturalmente presenti si autodepurano autonomamente dai batteri nocivi.
Già una decina di anni fa, nel 2006, salì agli onori delle cronache il rischio di presenza, nell’intaso di gomma che sostiene il manto d’erba artificiale di 13 centri sportivi analizzati dai Nas, di quantità pericolose e in alcuni casi oltre la soglia stabilita per legge di Ipa (idrocarburi policiclici aromatici dannosi per reni, fegato e polmoni), toluene (composto volatile altamente tossico) e metalli pesanti.
Secondo una nota diramata all’epoca da una specifica Commissione della FIGC per i campi in erba artificiale – presieduta dal Prof. Roberto Verna, ordinario di patologia clinica presso l’Università “La Sapienza” (Roma) –si sottolineava infatti il rischio delle polveri sollevate dal pallone e inalate di conseguenza dai giocatori.
Questo allarme è tornato d’attualità anche lo scorso ottobre in Olanda dopo che la trasmissione del documentario di denuncia “Zembla” ha posto sotto i riflettori la questione.
Di seguito il video, sottotitolato in inglese, del documentario “Dangerous play” pubblicato sul sito della trasmissione “Zembla“.
Fonti consultate:
ESA
Assosementi
La Stampa
Repubblica
La Gazzetta dello Sport
Tag:Italia, prati naturali, prato naturale, ricerca e sviluppo, sostenibilità ambientale, Sport